Il 3 agosto scorso Maria Rosaria Cocco ci ha lasciato.
L’avevo incontrata per la prima volta nel pieno della rivolta studentesca del ’68, in un’affollata aula dell’Orientale di Napoli in cui rimbalzavano le notizie che venivano dalla Sorbona, dal Politecnico di Torino e dalla vicina Facoltà di Architettura occupata: a tutte le latitudini, con intensità e sfumature diverse, si esprimeva l’urgenza di cambiare dalle fondamenta la società capitalista, la cultura borghese e l’apparato dell’istruzione che le incarnava; e si scandiva uno slogan che anche noi due sostenevamo fermamente e per la cui realizzazione ci saremmo poi adoperate per anni, condividendo l’idealismo profondo di quell’universo giovanile: “Università di massa e qualificata”; uno slogan e un ideale che furono fatti propri da un ampio gruppo di docenti democratici dell’allora “Seminario di Inglese” dell’Orientale di cui facevano parte Nando Ferrara, Lidia Curti e molte/i altri.
Eravamo ambedue studentesse “mature” con esperienze lavorative alle spalle. Maria Rosaria, che aveva collaborato per qualche anno con la RAI di Napoli, stava scrivendo la tesi per la sua seconda laurea, mentre insegnava inglese in una scuola media di Gragnano. Io avevo ripreso gli studi dopo anni di attività come traduttrice. Ma quei mesi e quegli anni di accesi confronti ideologici e il rinnovamento epistemologico che andavano attuando comunità di studiosi come il Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il gruppo delle Annales in Francia ci diedero un nuovo imprinting di cui il lavoro di ricerca/didattica e la produzione scientifica di Maria Rosaria sono una chiara testimonianza.
Il suo primo saggio, pubblicato da laureanda su Annali dell’Istituto Universitario Orientale (1968, n. 2), evidenziava questo rovesciamento di prospettiva fin dal titolo (“Malodorous Ibsen”, che riprendeva uno degli insulti lanciati contro Ibsen nel quadro dello scontro ideologico che si scatenò su Casa di bambola e le sue tesi sulla condizione femminile, tanto tra i critici quanto tra gli spettatori – con tanto di ombrellate in testa durante le rappresentazioni). Utilizzando come fonti la stampa quotidiana e periodica dell’epoca, sottolineava con forza il rapporto tra produzione estetica e “cultura”: un termine ed un ambito di indagine scientifica che non si erano ancora fatti strada in Italia e che avrebbero presto trovato cittadinanza all’interno dell’AIA con la creazione di una specifica sezione culturalista.
Nei suoi scritti e nei suoi corsi (tenuti prima all’Orientale e poi al Suor Orsola Benincasa) rimase fedele al suo impegno oltrecanonico, attingendo a repertori considerati ancora poco ortodossi, per portare alla luce aspetti inediti della cultura inglese, e di quella popolare in particolare: il rapporto tra rivoluzione industriale e tempo libero che determinò la creazione di nuovi generi di spettacolo che attiravano a teatro folle di lavoratori poveri ed analfabeti, bisognosi di svago, ma anche catturati dal fascino di Shakespeare che riusciva a trapelare perfino in riduzioni fulminee ed economicissime (“Shakespeare in 5 minuti”, “Shakespeare per un penny”), spesso limitate alle sole scene esoteriche o sanguinolente (le streghe di Macbeth, le cataste di cadaveri in scena…), ma ricche di azione (i duelli di Hamlet, le battaglie campali delle Histories e… persino… battaglie navali). Valga per tutti un solo titolo: Arlecchino, Shakespeare e il marinaio. Teatro popolare e melodramma in Inghilterra (1800-1850), del 1990.
Anche il suo interesse per manifestazioni “alte” e addirittura raffinate del teatro inglese (come la Salomè di Wilde, o il repertorio di un grande divo del palcoscenico come Garrick) si intrecciava a una lettura attenta alla rappresentazione del “femminile”, illuminata sapientemente dagli stimoli intellettuali dell’allora nascente critica femminista e consapevole della ricca complessità di ogni prodotto culturale (ricercato o popolare), inestricabilmente legato in modo dialettico e creativo al gioco egemonico operante in ogni congiuntura storica, secondo la geniale intuizione gramsciana intorno alla quale i Cultural Studies si andavano interrogando.
Il suo entusiasmo e il piacere della scoperta di gemme ignorate nelle pieghe oltrecanoniche della cultura inglese erano contagiosi, così come l’amalgama di serietà e di divertimento che la animavano come studiosa e come docente.
Marina Vitale